IL PRETORE
    Nella causa promossa da: Marenghi Giovanni (avv. Luciano Petronio)
 contro  il  Ministero  dell'interno,  avente  ad  oggetto  il diritto
 all'erogazione dell'indennita'  di  accompagnamento,  a  scioglimento
 della riserva di cui al verbale precedente, ritiene quanto segue.
    Con  ricorso  depositato  il  30  ottobre  1992, Marenghi Giovanni
 chiamava  in  giudizio  il  Ministero  dell'interno  perche'  venisse
 condannato  ad  erogargli  l'indennita' di accompagnamento, richiesta
 fin dal 28 luglio 1988 e negatagli perche' la competente  commissione
 sanitaria il 17 dicembre 1991 lo aveva giudicato totalmente invalido,
 ma non bisognoso di assistenza continua.
    Per  il  Ministero dell'interno si costituiva un funzionario della
 prefettura di Parma che chiedeva la conferma del giudizio reso  dalla
 commissione sanitaria.
    Veniva  disposta  ed  espletata consulenza tecnica all'esito della
 quale veniva accertato che al ricorrente,  pur  totalmente  invalido,
 non  aveva  necessita'  di  assistenza  continua e poteva agevolmente
 deambulare.
    All'odierna udienza il pretore ha ritenuto che  per  la  decisione
 della  presente causa e' indispensabile l'applicazione di norme della
 cui costituzionalita' puo' dubitarsi.
    La causa e' stata iniziata dopo l'entrata in vigore del  d.l.  19
 settembre 1992, n. 384, convertito in legge 14 novembre 1992, n. 438,
 che  all'art. 4, secondo comma, ha abrogato sia l'art. 57 della legge
 30 aprile 1969, n. 153, che l'art. 152  delle  disp.  att.  del  cod.
 proc.  civ.  per  cui,  per  quanto attiene alle spese processuali, e
 quindi anche a quelle di consulenza tecnica,  si  deve  applicare  il
 criterio  generale della soccombenza previsto dall'art. 92 cod. proc.
 civ., pur con la possibilita' di compensazione per giusti motivi.
    Il terzo comma dell'art. 4 cit. dispone "le disposizioni di cui al
 primo e secondo comma non si  applicano  ai  procedimenti  instaurati
 anteriormente  all'entrata  in vigore del presente decreto, ancora in
 corso alla medesima data".
    L'interpretazione di questa  norma  non  e'  agevole,  soprattutto
 perche'  le  situazioni  disciplinate dal primo e secondo comma, sono
 molto diverse; mentre il secondo comma  regola  l'onere  delle  spese
 legali,  il  primo comma regola invece il termine di decadenza per la
 proposizione dell'azione giudiziaria che, con la modifica del secondo
 e terzo comma, dell'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970, e' stato  portato
 da  dieci  a  tre  anni  in materia di trattamenti pensionistici e da
 cinque ad un anno per le  prestazioni  ex  art.  24  della  legge  n.
 88/1989.
    Non c'e' dubbio che la finalita' della norma (art. 12 prelegge) e'
 quella  di  limitare  gli  esborsi  degli  istituti previdenziali per
 contenere il disavanzo,  che  in  questi  ultimi  anni  ha  raggiunto
 dimensioni  spropositate;  secondo  l'intenzione  del  legislatore la
 norma non puo' quindi essere  interpretata  nel  senso  di  estendere
 sensibilmente l'ultrattivita' della precedente normativa.
    Il  legislatore  ha  adoperato l'espressione "procedimenti" invece
 che quella di "processi", usata  altre  volte  ad  es.  nell'art.  6,
 secondo  comma,  del d.l. n. 103/1991 e quindi sembrerebbe che abbia
 voluto riferirsi a qualcosa di diverso dal procedimento giudiziario.
    Alle stesse conclusioni si arriva considerando  che,  intesa  come
 riferita  ai  procedimenti  giudiziari  in  corso, la norma in quanto
 diretta a regolare anche la  decadenza  ex  art.  47  del  d.P.R.  n.
 639/1970,  non  avrebbe  alcun  senso; ed infatti se fosse gia' stato
 iniziato il procedimento giurisdizionale, la decadenza sarebbe  stata
 gia'  evitata  e  la  nuova  norma  non  avrebbe potuto in alcun modo
 interferire su una situazione ormai verificata.
    Non limitata al procedimento giudiziario  e  ritenendo  che  possa
 avere un senso il fatto che essa regola anche la ipotesi prevista dal
 primo  comma  che  la  norma  sembrerebbe  allora volersi riferire al
 procedimento amministrativo. Di esso quindi si devono delimitare  gli
 ambiti, per verificare quando debba dirsi ancora "in corso".
    E'  stata  avanzata  l'ipotesi  per cui come procedimento in corso
 dovrebbe comprendersi oltre al procedimento amministrativo  in  senso
 proprio,  anche  l'intero  periodo  di  dieci  anni  nel  quale,  era
 possibile in  base  alla  previgente  normativa,  intentare  l'azione
 giudiziaria  e nel quale, fino al momento del ricorso giudiziario, e'
 possibile alla  pubblica  amministrazione  esercitare  il  potere  di
 autotutela.  Il  nuovo  regime  andrebbe quindi applicato solo a quei
 procedimenti apertisi a seguito di  domande  amministrative  proposte
 dopo il 19 settembre 1992.
    Ritiene  il  pretore  che  questa  interpretazione non puo' essere
 seguita: seppure eviterebbe dubbi, incongruenze ed irrazionalita' che
 conseguono  alle  altre  interpretazioni,  questa  e'  in   stridente
 contrasto  con  la  finalita' della modifica legislativa, giacche' ne
 risulta estesa senza giustificazione  e  oltre  ogni  ipotizzabile  e
 ragionevole  limite la previgente normativa. Ritenendo che il termine
 di decadenza decennale per il promuovimento  dell'azione  giudiziaria
 sarebbe  applicabile  a  tutte  le  domande  amministrative  comunque
 proposte  fino  al  18  settembre  1992, la riforma non avrebbe alcun
 effetto  in  relazione  alla  grave   e   onerosa   questione   della
 integrazione  al  minimo  di piu' pensioni, conseguente alle numerose
 pronunce di incostituzionalita' delle norme che lo vietevano.
    In secondo luogo il significato delle parole usate non  e'  quello
 prospettato.  Con  il termine "procedimento" nel linguaggio giuridico
 si e' sempre fatto riferimento a quella serie di atti  ed  operazioni
 fra  loro  coordinati  in successione temporale e tutti preordinari e
 finalizzati all'emanazione del  provvedimento  finale  con  il  quale
 viene  determinato l'effetto; si puo' ritenere procedimento in corso,
 quello per il quale non e'  stata  ancora  emessa  la  decisione  sul
 ricorso, o non sono scaduti i termini per la sua proposizione, ma non
 quello  ormai  concluso, per il quale sono scaduti i termini previsti
 dall'art. 46 del d.P.R. n. 639/1970, e' stata presa la decisione  sul
 ricorso  ed  e'  solo  possibile  l'esercizio  dell'autotutela  della
 pubblica amministrazione o il promuovimento dell'azione giudiziaria.
    Nel caso di specie, al momento dell'entrata in vigore del d.l. n.
 384/1992 il procedimento amministrativo come  sopra  individuato  non
 era  piu'  in corso, ne' era iniziato il procedimento giudiziario per
 cui non c'e' dubbio che non puo' essere  piu'  applicato  l'art.  152
 nelle disp. att. nel c.p.c.
    Alla  stessa  conclusione  si arriva anche interpretando il citato
 ultimo comma dell'art.  4  del  d.l.  n.  384/1992  come  diretto  a
 regolare   solo  l'entrata  in  vigore  del  secondo  comma  relativo
 all'abrogazione  dell'art.  152  delle  disposizioni  attuative   del
 c.p.c.,  ed  esteso anche al primo comma per un mero errore, e quindi
 intendendo l'espressione  "procedimento"  solo  e  come  procedimento
 giudiziario;  non  sembra  infatti che abbia senso l'esclusione dalla
 applicazione della nuova normativa, delle situazioni per le  quali  i
 procedimenti amministrativi sono ancora in corso, e che sono relative
 a  domande  recenti  e  per  le quali non si ravvisa la necessita' di
 salvaguardare posizioni non ancora esaurite.
    Ritiene   il   pretore   che   l'abrogazione   generalizzata    ed
 indiscriminata dell'art. 152 delle disposizioni attuative del c.p.c.,
 senza  escludere  le  situazioni dei non abbienti, possa ritenersi in
 contrasto con gli artt. 3, 24 e 38 della Costituzione.
    La Corte costituzionale ha piu' volte preso in esame sia l'art. 57
 della legge 30 aprile 1969, n. 153, che l'art. 152 delle disposizioni
 attuative del c.p.c. cosi' come modificato dalla legge  n.  533/1973,
 ed  ha  sempre  interpretato  le norme come dirette ad assicurare una
 situazione di sostanziale parita' per cittadini  che  si  trovano  in
 condizioni di particolare debolezza.
    Con  la  sentenza  n. 23/1973, la Corte, estendendo l'applicazione
 dell'art.  57  della  legge  n.  153/1969  anche  alle   controversie
 instaurate  contro  l'I.N.A.I.L.  ha  affermato che " ..detto esonero
 dalle  spese  stabilito  in   favore   dell'assicurato,   lungi   dal
 determinare  una  disparita'  di  posizione tra le parti (che e' solo
 apparente),   realizza,   invece,   attraverso   un   meccanismo   di
 neutralizzazione  della  notoria  minor  resistenza del lavoratore di
 fronte al rischio processuale, una situazione di sostanziale parita'.
    Onde, non fonte di disuguaglianza, esso  esonero,  in  definitiva,
 costituisce,  bensi'  mezzo  di ripristino di una uguaglianza che, se
 pur esistendo  sul  piano  formale,  e'  suscettibile,  comunque,  di
 cadere,  ove  il  rischio  del  processo,  apparendo  troppo gravoso,
 distolga il lavoratore dal far valere sue fondate pretese".
    Con la successiva n. 60/1979 nel ribadire le stesse argomentazioni
 ha  poi precisato che " .. il patrocinio a spese dello Stato, volto a
 consentire a  tutti  i  cittadini  la  possibilita'  di  agire  e  di
 difendersi  in  giudizio, si differenzia nettamente dal beneficio del
 quale si discute,  che  prescinde  dalle  condizioni  economiche  del
 soggetto  interessato. In vista della rilevanza sociale della materia
 previdenziale  e  assistenziale,  il   legislatore,   disponendo   la
 compensazione  delle  spese  del  giudizio in caso di soccombenza del
 lavoratore, ha voluto porlo al riparo  dal  rischio  processuale,  al
 fine  di  consentirgli di far valere le sue pretese non temerarie nei
 confronti degli istituti di previdenza e assistenza.
    Il costo del processo puo' essere gravoso anche per  chi  non  sia
 povero  nei limiti richiesti per ottenere il patrocinio a spese dello
 Stato e puo' costituire, anche in tal caso, una remora a  far  valere
 le proprie fondate ragioni".
    Le stesse affermazioni sono contenute nella sentenza n. 85/1979.
    La  Corte  e'  tornata  sull'argomento nel 1987 con la sentenza n.
 135. Nell'affermare implicitamente la vigenza e la  costituzionalita'
 dell'art.  125  del r.d. n. 1422/1924 ha ripetuto che "Quello attuato
 dalla norma censurata e' proprio il  meccanismo  che  neutralizza  la
 notoria minore resistenza del lavoratore.
    Inoltre, esso realizza anche la sostanziale parita' di trattamento
 del    lavoratore,   parte   debole   del   processo,   dell'istituto
 previdenziale, parte certamente piu' forte".
    Piu' oltre, poi, nel rigettare la questione  di  costituzionalita'
 della norma che consente l'esonero dal pagamento delle spese anche al
 lavoratore  abbiente,  ha  affermato  che " .. non sembra che possano
 ancora valere  tutte  le  ragioni  che  hanno  determinato  l'attuale
 disciplina  normativa; che non si possa continuare a non tenere conto
 delle condizioni economiche del lavoratore ed  in  specie  della  sua
 possibile condizione di 'abbiente'.
    Proprio   le   possibili   elevate   condizioni   economiche   dei
 'lavoratori' (il termine e'  comprensivo  di  varie  categorie  anche
 molto   differenziate   tra   loro)   che  hanno  a  volte  raggiunto
 retribuzioni di entita' notevole e pensioni  anche  elevate,  fondano
 l'opportunita'  di una revisione della norma censurata e una sua piu'
 restrittiva previsione.
    Mentre  non  puo'  del   tutto   escludersi   che   una   siffatta
 modificazione   possa   produrre   effetti  utili  e  benefici  sulla
 situazione generale degli istituti previdenziali ed assistenziali.
    Ma la determinazione concreta delle  condizioni  e  degli  estremi
 della   situazione   di   'abbiente',  per  i  fini  che  interessano
 specificamente la materia, importa scelte affidate  alla  discrezione
 del legislatore e che questa corte non puo' compiere".
    In  sostanza,  l'estensione  del  beneficio  anche  ai  lavoratori
 abbienti non e'  incostituzionale,  perche'  la  scelta  operata  dal
 legislatore e' frutto della discrezionalita' non censurabile; si puo'
 pero'  dubitare  della  successiva scelta discrezionale di abolizione
 indiscriminata del beneficio.
    Se con esso  era  stato  rimosso  uno  degli  ostacoli  di  ordine
 economico  e  sociale  che di fatto creavano situazioni di diversita'
 fra i cittadini, dando in tal modo attuazione agli artt. 24 e 38 alla
 luce dell'art. 3, primo e secondo  comma,  la  sua  abrogazione  puo'
 ritenersi   incensurabile,   (come   frutto   della  discrezionalita'
 legislativa,  legata  alla  valutazione  politica  della   situazione
 economico-sociale  del  paese)  solo  nei  limiti in cui il beneficio
 viene tolto agli abbienti.
    L'abrogazione  crea  disparita'  di  trattamento  (art.  3   della
 Costituzione)  (nel  senso  che  viene  ripristinata la situazione di
 diversita' sostanziale), limita di fatto la possibilita' di  agire  a
 tutela  dei propri diritti (art. 24 della Costituzione), non tutela a
 sufficienza  il  cittadino  inabile  al   lavoro   (art.   38   della
 Costituzione)  e  quindi  la questione relativa alla sua legittimita'
 costituzionale non e' manifestamente infondata.
    In mancanza di una diversa e apposita valutazione della condizione
 di abbienza, ritiene il pretore che si debba fare ricorso all'art. 11
 della legge 11 agosto 1973, n. 533; ed infatti  la  presenza  di  una
 disciplina  specifica prevista per le cause di lavoro e previdenziali
 esclude che  ci  si  possa  riferire  alla  disciplina  generale  sul
 gratuito  patrocinio  od  a  quella  prevista  per  la difesa dei non
 abbienti nel procedimento penale, o per  il  risarcimento  del  danno
 derivante da reato, dalla legge 30 luglio 1990, n. 217.
    Anche il secondo comma dell'art. 11 della legge n. 533/1973 appare
 pero'  viziato  di incostituzionalita' perche', nel fissare il limite
 di  reddito  in  due  milioni  di  lire  (limite  all'epoca  ritenuto
 adeguato),  non  ha  previsto un sistema di adeguamento automatico al
 mutato valore del denaro. Non c'e'  dubbio  che  il  limite  e'  oggi
 irrisorio  anche  perche', ai sensi del successivo art. 12, i redditi
 dei coniugi vanno cumulati; il mancato adeguamento del  limite  rende
 praticamente  del  tutto  inoperante la disciplina con la conseguente
 violazione degli artt. 3, 24 e 38 della Costituzione per  gli  stessi
 motivi gia' illustrati.
    Neppure  si  potrebbe  obiettare  che  lo stabilire il criterio di
 adeguamento  e'   compito   riservato   alla   discrezionalita'   del
 legislatore (che, ad esempio, ne ha fatto uso nella legge n. 217/1990
 quando all'art. 3, quinto comma, ha previsto che la misura del limite
 di reddito venga adeguata ogni due anni con decreto ministeriale).
    Gia'  altre  volte  la Corte costituzionale (sentenza n. 497/1988)
 non ha esitato a dichiarare l'incostituzionalita' di altra norma  per
 lo   stesso   motivo   della  mancata  previsione  di  meccanismi  di
 adeguamento, pur facendo salva la discrezionalita'  del  legislatore;
 in  questa  materia,  infatti,  e'  gia' previsto dagli artt. 429 del
 c.p.c. e 150 delle disposizioni attuative del c.p.c. un  sistema  per
 l'adeguamento  dei  valori  monetari al mutato valore sostanziale del
 denaro;  il  criterio  puo'  essere  ritenuto  di  portata   generale
 nell'ambito  delle  controversie  di  lavoro e previdenziali, e vi si
 puo' fare  ricorso  senza  problemi  anche  per  adeguare  il  limite
 previsto  dal  citato  art.  11  della legge n. 533/1973, cosi' come,
 ormai pacificamente vi si fa ricorso (Cass. 23 giugno 1992, n.  7671)
 nel  dare  applicazione  alla citata sentenza n. 497/1988 della Corte
 costituzionale.